domenica 26 settembre 2010

Una domenica di settembre

Ieri sera, la ultra-centenaria proprietaria del Grimselblick (non è vero ha solo superato brillantemente gli 80) si è congedata invitandoci a proseguire pure con le birre e a dormire tranquilli, che tanto da lì non saremmo ripartiti prima di lunedì quando, forse, sarebbe arrivato qualcuno ad aprire la strada. E così abbiamo fatto, con più disinvoltura il sottoscritto, con qualche difficoltà in più l'esagitato Massi, ansioso di tornare a Milano. Beati, ci siamo avvolti nei rispettivi piumoni, decisi a svegliarci solo a tarda mattinata. Invece è accaduto il miracolo e siamo stati risvegliati dal suono della cavalleria rusticana. Increduli ci siamo affacciati alla finestra e ci siamo dati un paio di pizzicotti: non era un'allucinazione, sulla strada c'erano una fresa e uno spalaneve! Mai rombo di motore fu più dolce.

Stefan, il figlio dell'ultra-centenaria, è ritornato a liberare il passo in compagnia di un paio di amici rubicondi. Carichi di adrenalina siamo scesi dal letto e ci siamo subito prodigati a preparare le borse e a organizzare la ripartenza, non prima di un'adeguata colazione ovviamente.
Convinti di partire e desiderosi di farlo alla svelta, abbiamo salutato tutti e siamo andati alle moto. Solo allora abbiamo realizzato che davanti al garage c'era più di un metro di neve. Per una volta tanto, dunque, ci è toccato lavorare e per un paio d'ore abbiamo spalato neve per liberare le nostre belle. Una volta riesumate come mummie da una piramide, ci siamo accorti che i blocchetti si erano quasi ghiacciati: un po' d'acqua calda e ci mettiamo in marcia.

La discesa dal passo innevato è qualcosa di indescrivibile. Fa freddo, ma non importa, lo spettacolo proiettato nelle visiere dei nostri caschi, in esclusiva per noi, merita sofferenze peggiori. Scendiamo indisturbati e ammiriamo il Furka, dall'altra parte della valle, ricoperto di neve. Alle nostre spalle il vento solleva ancora le neve più fresca e crea una nuvola bianca che sembra una valanga; grazie al gioco dei tornanti le passiamo attraverso e poi ridiscendiamo giù, fino alla sbarra che ci ricorda che il passo è chiuso e ci consente di destare la curiosità di alcuni escursionisti.
Ci fermiamo a fare alcuni scatti, il paesaggio è meraviglioso e sappiamo, perché lo abbiamo visto dall'alto, che il dipinto bianco finirà poche curve dopo, sostituito dal verde che è consuetudine in questa stagione. Pochi chilometri e guadagniamo Oberwald, dove la gente raccolta attorno ad alcuni treni a vapore ci ricorda che in fondo tutto è normale, è consuetudine, e ci fa capire che nessuno, qui, è rimasto bloccato dalla neve: è una normalissima domenica di settembre.
Di qui scendiamo per la bellissima valle del Goms fino a Briga, imbocchiamo la strada del Sempione e ci ricongiungiamo in men che non si dica con il traffico milanese di rientro dalla gita al lago. Già, è una normalissima domenica di settembre.


martedì 7 settembre 2010

C'è un modo giusto per morire

Tomi muore, nel modo che tutti abbiamo visto. Faccio un giro tra i quotidiani. A cadavere ancora caldo si scatenano le polemiche, di giornalisti e postatori: nel silenzio della morte c'è un gran baccano. Le bandiere rosse, la gara che doveva essere interrotta, la MotoGP che non doveva partire, tutta colpa degli sponsor, degli spot, dello show televisivo che non si ferma neanche davanti alla morte di un ragazzo di vent'anni.
Cadono sentenze lapidarie, che si incattiviscono l'una con l'altra nel mare magnum della rete. Ogni post, editoriale o lancio di agenzia fa l'effetto di una goccia: crea un cerchio su uno specchio d'acqua. Solo che le gocce sono migliaia, e si intersecano, e la superficie d'acqua ribolle, tra giornalisti che in quel gran baccano parlano di indifferenza e postatori che lanciano strali contro il motociclismo tout court,
"uno "sport" che ha come divertimento la sistematica violazione del Codice stradale" (sic).
Io leggo, a volte le dita prudono, ma mi fermo. Cerco sempre di non abboccare a queste trappole ed evito di farmi e fare ad altri il sangue amaro buttandomi nella mischia. Adotto questo snobismo quando ho la convinzione che tanto, a fine chiacchiere, ciascuno resta della propria opinione.
Allora vado
sulla piazza di Facebook, che per me è un male necessario, ma dove posso trovare i miei amici motociclanti e dove spero di trovare finalmente un po' di umana compassione (nel senso latino del termine, di "sentire con"). La trovo, e oscilla tra il nostro solito fatalismo e qualche sentimentalismo retorico. In qualche caso, quando vedo che i post su Tomi si moltiplicano sullo stesso profilo, ho la sgradevole sensazione che qualcuno punti a fare incetta di visite e interazioni. Ma non mi piace pensar male e allora mi convinco che qualcuno, molto semplicemente, non si dà pace.
Poi mi accorgo che anche tra i non motociclanti si moltiplicano i commenti, scatenati da una notizia che è finita in prima pagina su tutti i giornali. Vengo in particolar modo colpita da una bacheca, di persona notoriamente intelligente, acuta e circondata di intellettuali sempre pronti a difendere i rom dalla cacciata dei Sarkò o la dignità della donna dalle battutacce di un Presidente, e ci vado, tanto per vedere se con la lucidità di
intellettuali non coinvolti (perché non motociclanti né appassionati di motociclismo), sanno offrirmi una nuova visione della faccenda. Scopro che il vocabolario si ripete: "ripugnante", "spregevole" e "agghiacciante" sono relativi al "giogo di una verità lucrativa", di un pubblico che voleva star lì a vedere la fine della gara, di un Valentino che ricorda come Tomi facesse tanto ridere. La gara che doveva essere interrotta, la MotoGP che non doveva partire, tutta colpa degli sponsor, degli spot, dello show televisivo che non si ferma neanche davanti alla morte di un ragazzo di vent'anni. Però non parlano delle bandiere rosse.
Allora, nonostante la delusione per post che non mi dicono nulla di nuovo ma stimolata dalla platea che preferisco pensare ricettiva, provo. Mi scuso per l'intrusione, dico che rispetto la loro ripugnanza. Provo a dire che il mondo dei piloti segue logiche a parte, che prescindono persino dalle logiche degli spot e degli sponsor. Che
oggi il giro di quattrini facilita solo il dito puntato e regala un capro espiatorio per qualcosa che forse sarebbe avvenuto comunque. Una volta, quando i piloti correvano e si ammazzavano molto più spesso e più facilmente di ora e non c'era la Mondovisione a riprenderli e per fare le gare un Campione del Mondo chiedeva le ferie all'ENEL dove lavorava e ci andava col Fiorino, il modo migliore per onorare un compagno morto era correre. Aggiungo in post scriptum due piccole considerazioni tecniche su quanto avvenuto ieri (tipo che forse c'è da chiedersi se serviva proprio una striscia d'erba sintetica dopo il cordolo e se forse 38 piloti in una manciata di secondi non siano troppi). La maggior parte dei benpensanti rende onore al mio intervento con "La madre degli ignoranti è sempre incinta....!!!!" e "Non c'è più da stupirsi di nulla...quando mancano i valori...". Poi vedo che la titolare della bacheca interviene e speranzosa tiro un sospiro di sollievo, e spero che io, i piloti, i motociclisti verremo salvati come i rom e le donne (almeno verrò salvata come donna). Poi leggo che capisce le mie considerazioni tecniche (in post sciptum) e che far continuare la gara sarebbe stato come continuare a far funzionare la Thyssen mentre gli operai morivano. "Il problema è che cosa altro si può arivare a legittimare per denaro o, peggio, per un distorto senso del dovere o una depravata concezione della professionalità". Sto male e cedo un'altra volta. Provo a dire che forse le logiche a parte sono quelle dei piloli stessi, della loro testa più che degli sponsor, ed è per questo che non si possono accostare agli operai della Thyssen. Che il rischio della morte è qualcosa con cui un pilota si confronta ogni decimo di secondo. Per SCELTA. Non credo che l'operaio faccia l'operaio perché gli piace giocare con la Nera Signora. Anche se non ci fossero i soldi e la tivù, sarebbe lo stesso. E' un modo diverso di vivere la vita e, quindi, la morte. Se avessero spento le telecamere e avessero minacciato i piloti di ritirar loro l'ingaggio, forse (dico forse) avrebbero corso lo stesso. E' il loro modo per rendere onore a uno di loro e per esorcizzare i propri fantasmi. Forse è una depravata concezione della professionalità, o forse è solo un modo diverso di vivere la morte. Dico che il mio non è un modo per difendere nessuno, ma di spiegare che forse non c'è mancanza di rispetto se accettiamo che in altre vite i parametri siano diversi.

Cito Dovizioso, due settimane fa scampato a un incidente uguale. A lui è andata bene. "A Brno ero a terra e sono stato evitato da Valentino Rossi. Quando non succede non ti rendi conto, quando c'è voglia di ottenere risultati non pensi altro ed è come se non avessi rischiato niente. Viviamo fuori dalla realtà? Più o meno sì". Alla fine riusciamo a farla finita quando, per farmi capire che hanno capito, dicono: "La stessa logica dei gatti in amore che attraversano la strada senza guardare". Dico "già".
La morte di Tomi m'ha fatto capire che la tolleranza è nei confronti di chi la pensa allo stesso modo. Anche sulla morte.


mercoledì 1 settembre 2010

Piccoli aneddoti storici per chi vuole scoprire che il motociclismo al femminile non è una notizia così fresca.

PILOTE. La prima gara motociclistica femminile si è svolta nel 1897 (milleottocentonovantasette) a Parigi: erano in 11 a correre. L’anno dopo erano in 11 piloti maschi a correre la Parigi-Nizza: una donna arriva quarta. Nel 1905 l’inglese Muriel Hind prende la licenza di corridore e l’anno dopo vince la sua prima gara a Edimburgo, poi progetta una bicilindrica a V e va a farci le gare di trial: è stata la prima giornalista di moto del settore ed è stata eletta come membro a vita della "Association of Pioneer Motor Cyclists". Nel 1948 Vittorina Massano, 15 anni non ancora compiuti, partecipa fuori classifica a una gara in salita in sella a una Mondial 125 e fa il miglior tempo, ma la prima campionessa italiana fu Vittorina Sambri, un portento, già dal 1913 e poi sempre protagonista negli anni Venti nelle gare con gli uomini. Ma chissà com’è, tutti pensavano che fosse un maschio e la seguivano in spiaggia per scoprire il segreto.

…E AVVENTURIERE. Nel
1911 una miss inglese dà scandalo perché se ne va in moto da sola da Coventry a Londra, poi però le regalano un anello di brillanti come premio. L’anno prima l’americana Clara Wagner partecipa a una gara di resistenza da Chicago a Indianapolis: partecipa si fa per dire, perché alle donne non era permesso gareggiare, ma quando arriva al traguardo (senza penalità) i piloti uomini le danno una medaglia d’oro, per l’impegno. Nel 1915 una texana attraversa gli Usa in Harley-Davidson col suo cagnolino. Nel 1931 la tedesca Hanni Kohler monta su una BMW e se ne va in India. Nel 1935 Theresa Wallach ha diciassette anni e parte in sidecar per Città del Capo, attraversando il deserto del Sahara. Nel 1953 l’italiana Anny Ninchi Cacciaguerra parte da Pesaro per Nuova Delhi, in India, in Lambretta: “Mi annoiavo, cercavo qualcosa che potesse cambiare la mia vita, non sapevo guidare, mi fecero un corso accelerato”. Nel 1991 Monika Vega finisce sul Guinness dei Primati: ha fatto il giro del mondo in solitaria (83.500 km, 53 Paesi, 444 giorni) su una Honda MTX 125. Ha scelto una 125, una Varadero stavolta, anche la francese che è partita a giugno da Parigi: tra pochi giorni arriverà a Tokio.

Qui la più bella carrellata di foto d’epoca sulle motocicliste:
http://www.motocicliste.net/motocicliste/storia.asp